Ci credi all’amore a prima vista,
o devo ripassarti davanti?

Ci si abitua a tutto, per carità. Alla pizza con la mozzarella che non fila, alla spiaggia finta sulla Senna, al caffè slavato, al rincorrere la metro e le persone, a non conoscere i vicini di casa, alle piastre elettriche, alla doccia al posto del bidet.
Ci si abitua a pagare caro e a pagare tutto, a fare la fila ordinati, all’ombrello d’estate, a pensare in un’altra lingua.

All’inizio questa vita la odi, ma non puoi dirlo perché appena metti piede fuori dall’Italia diventi per gli altri, per quelli che ti vedono partire, testimone vivente del decadimento del tuo paese.
Beato te che te ne sei andato!, ti scriveranno,
allora, come si sta lì? sicuramente meglio che qui, e non potrai deluderli dicendo che no, a dire il vero si sta da schifo, le case sono piccole le fatiche enormi perché quando lasci l’Italia hai l’obbligo morale di trovare soldi, successo e felicità. È una bella responsabilità.

Come se non bastasse, diventi immediatamente il loro affidabile inviato dall’estero: ma dimmi, come vedono lì in Francia le elezioni per il sindaco di Ravenna? sopravvalutando l’importanza della loro quotidianità e, ancor peggio, con la convinzione di essere nel giusto.
E ancor peggio, convinti che bastino due settimane per capire come funzionano le cose in un nuovo paese.

Io ero venuto qui pieno di dubbi, e non sono mie le parole che mi mettete in bocca, sono quelle che volete sentirvi dire, avrei voluto rispondere.
Ma è troppo tardi, sei già diventato il loro tuttologo di fiducia, l’amico che ha l’autorità e l’esperienza per parlare male del loro microcosmo. Gli è di consolazione, potersi illudere che altrove avrebbero saputo far bene se solo il destino ce li avesse messi.

Io ero venuto qui pieno di dubbi, in una città fredda, smisurata, densamente popolata e densamente disinteressata.
Qui sei un numero ma veramente, se ti credi un po’ unico e un po’ speciale vieni qui in terapia, ti passa tutto e torni a essere uno stronzo qualunque.

Ci vuole davvero troppa tenerezza per innamorarsi di un popolo come quello francese, e io questa tenerezza l’ho trovata nella curva di un’autostrada.
Era notte, tornavo da Londra in auto e mi sembrava di correre nel verso sbagliato. Londra è una città che prima di tutto ci abitano ancora i regali, quelli con la corona non quelli col fiocco, oltretutto a piede libero; e poi non è nemmeno una città ma un enorme paese di provincia fatto di strade strette e case basse. Il limite di velocità è di 30 miglia, mancano 60 yard alla Manica, hai mica delle sterline che tocca fare qualche gallone di gasolio? Se vai a Londra oltre all’asciugamano portati la calcolatrice.

Ma al ritorno, in autostrada, c’è una curva nel buio che appena la fai uhao, ti si spalanca in faccia Parigi dall’alto, un trionfo di luci a perdita d’occhio e capisci perché la chiamano Ville Lumiere e non Ville Baguette.
È in quel momento che mi sono innamorato di questa città, che forse è il risultato dell’arroganza francese o della loro burocrazia, o delle loro centrali nucleari, o della loro mancanza di umorismo, e forse si vive anche male in case piccole e poco confortevoli, si mangia immondizia e ci si innamora di due gambe diverse ogni giorno, ma è una città complessa, moderna, sensata, ancora faticosamente di sinistra in Europa, che ha saputo sbarazzarsi più volte di re e condottieri, con una cultura identitaria così pericolosamente simile al nazionalismo quanto dissimile dal servilismo, con una capitale così inospitale da aver ospitato tutti i peggiori criminali e i migliori intellettuali della storia, che spesso poi erano la stessa cosa, e che a guardarla bene, Parigi, ci si può vivere anche senza spiaggia e senza pizza.

Basta ripassarci davanti, amore a seconda vista.