Il taxi ci accompagna in una zona industriale dismessa, appena fuori Mosca, una distesa di immensi edifici consumati.
Provo a dire alla mia immaginazione di non farlo – non farlo – di non metterci dentro – non farlo – muscolosi fabbri sovietici, scintille, colate di piombo fuso – troppo tardi, l’ha fatto.
Immense ventole, distese di tubi arrugginiti, passerelle, cavi scoperti, pezzi di motori e quelle aiuole algide con alberi gracili che ancora oggi usiamo mettere tra le fabbriche. L’uomo prepara con cura la propria fine, sterilizza le siringhe delle iniezioni letali.

Un’altra generazione ora abita questi spazi, e lo fa rivestendoli di tende, proiettori, laser, rami, luci strobo, maschere sculture divani bar tappeti insegne, muri di casse con quadri elettrici. Una gigantografia di Lenin.
Donne uzbeche che potrebbero essere tagike o kazake, sembrano essere l’anello più basso qui dentro. Puliscono ininterrottamente qualsiasi superficie. Tolgono la polvere dalle casse, infilano stracci fin dentro ai woofer. Lo fanno con la stessa dedizione delle madri che lavano le tshirt dei Sepoltura ai propri figli. Domani non avranno più udito.
Nel privè ragazze alte, magre, scosciate indossano lunghe corna da satire e camicette trasparenti. I ragazzi toghe da prete. Odore d’incenso.

Durante il soundcheck urto il caffè, mi si rovescia sul laptop. Un americano.
Smonto il computer, ne asciugo le schede, la caffeina mi rende nervoso ma l’intervento a cuore aperto ha un finale dolce.
La notte sarà un lungo rituale tra techno e musica meditativa, perdita d’identità. Connessione col proprio io ancestrale. Odore d’incenso.

Siamo in scaletta alle tre.
Suoniamo sei dei nostri tunnels of set. Qualcuno attorno al palco si distende per terra, altri ballano. La performance diventa un’ascesa collettiva. I suoni aprono sigilli, deviano il tempo di chi lo tiene. La musica leggera è per chi ha gambe poco allenate.
Ne usciamo stremati, parlando di dove poter rubare un incensiere per il prossimo concerto.
Sono più di dieci anni che suoniamo insieme, dai club underground di Berlino al rifugio antiatomico di Tito in Croazia, dal locale sadomaso a Barcellona al castello medievale a Brno.

L’alba ci risveglia lentamente dalla dimensione onirica. Le fabbriche tornano fabbriche. Con le loro cazzo d’aiuole.
Un taxi coi vetri scuri ci riaccompagna in aeroporto. Inizia un altro viaggio, quello in cui chiedono i documenti.