Tram, linea T3.
Di fronte a me c’era un ragazzo ebreo, l’ho dedotto dalla coppola, hai presente? Si chiama kippah, la coppola.
Al museo ebraico di Berlino ne avevo vista una collezione enorme, loro la indossano con la stessa disinvoltura di un berretto da baseball, ce n’era persino una con la scritta Beverly Hills 90210 che anche mia sorella sarebbe stata felice di portarla, all’epoca.
A me le religioni quando inseguono le mode fanno pena, come i politici che scrivono poesie o i ricchi che si mettono in cucina.
La coppola di questo ragazzo comunque era canonica: nera con un’aureola di scritte ebraiche dorate.
Avrà avuto vent’anni e parlava allegramente con una ragazza molto bella, pelle olivastra, labbra carnose, tratti spiccatamente arabi. Palestinese, ovviamente, avrei detto proprio palestinese.
Si vedeva lontano un miglio che lui le stava facendo la corte: mentre le parlava ondeggiava avanti e indietro, ininterrottamente, come davanti al muro del pianto.
Avanti e indietro, avanti e indietro, parlava e ondeggiava. Lei sorrideva divertita, lui parlava e ondeggiava.
Stava pregando, era evidente: la stava pregando, e di sicuro su quel muro c’era più riso che pianto.
Più desiderio che calce.