Lo scorso luglio ricevo una mail in francese da uno sconosciuto. Mi scrive qualcosa tipo
«Siamo in difficoltà, non riusciamo a trovare una figura professionale adatta e ci è stato comunicato il tuo nome: forse potresti aiutarci?So di essere vago, ma se sei ancora in Francia e in attività, per favore rispondimi».
Firmato ████ ███████, Ministero della Difesa.
Ministero. Della. Difesa.

Penso sia spam e sto per cestinare, quando noto che il mittente ha una mail gouv.fr. Governativi. Solo loro possono avere indirizzi di quel tipo.
Curiosità canaglia, decido di rispondergli:
«Sì, sono in Francia, ancora in attività».
«Possiamo sentirci al telefono, così ti spiego meglio?».
Gli do il mio numero.
Mi fa un colloquio preliminare, poi mi invita ad andarli a trovare nel quartier generale a █████, un paesino nel centro della Francia.

La settimana dopo prendo il treno, direzione █████. Al binario mi aspetta un tizio in abito civile, faccia simpatica, per nulla minaccioso. Mi fa salire su un’auto nera civile, vetri scuri, guidata da un suo collega, in abito civile pure lui.
Sono sicuro che finirò legato e sodomizzato, o magari mi iniettano La Droga, ma di sicuro non lo fanno per il riscatto. Forse per gioco. O per razzismo. Ho sempre sognato di diventare un fatto di cronaca nera.
E invece arriviamo in caserma.

La caserma è una caserma. Non è che ne ho viste tante, ma questa è tipo lo stereotipo, il master template delle caserme: trascurata e disordinata, sembra una scuola superiore ma senza le tette della prof di italiano.
Passo la mattinata con loro, mi mostrano quel che fanno e mi illustrano le loro necessità.
Nel pomeriggio, mi spiegano, dovrò presentarmi a una quindicina di alte cariche e rispondere alle loro domande. E infatti è quel che succede. Terra, aviazione, marina, servizi segreti. Non sono alti e muscolosi come credevo, e solo uno di loro ha i baffi.
Concreti, fanno domande puntuali ma omettono dettagli riservati █████, costringendomi a fare l’analisi grammaticale di Emilio Isgro. █████ ███████ autoritari. Io a una certa mi siedo.

Il colloquio in fin dei conti va bene e mi lasciano andare, purtroppo senza sodomizzarmi o iniettarmi La Droga, con la promessa però, forse la minaccia, di propormi un contratto annuale di consulenza.
Come sono arrivati a me?

Nel 2012 mi ero infilato ad una conferenza su ████ a Toulon, in Costa Azzurra, e questa conferenza si teneva in una caserma della Marina militare francese.
Erano stati carini perché ci avevano offerto ospitalità e io – quando mi ricapita di dormire in caserma? – avevo accettato volentieri. La sera eravamo andati tutti a cena col capo della cricca – Pasini! non li sai i gradi? Certo: 6 gradi la birra, 13 il vino e 40 il gin.
Siamo finiti sbronzi, io e il capo, vista sul porto di notte, navi da guerra come lanterne cinesi, a disquisire su Je t’aime moi non plus, io che ancora non parlavo francese. Si era fatto tardi e vista la mia incapacità a rigare dritto, mi avevano caricato in auto e accompagnato in camera.
Erano stati carini, lasciandomi un’intera camerata a disposizione. Potevo scegliere di dormire in uno qualsiasi dei 30 letti e di pisciare in una qualsiasi delle 10 turche. Oppure di alzarmi ogni quindici minuti e andare a pisciare in una turca diversa e tornare a dormire in un letto rifatto. Ma reputo già un buon risultato l’aver centrato un materasso qualsiasi senza essermi pisciato addosso.
Alle 6 di mattina una colonna di ventenni ubbidienti mi aveva svegliato con la tromba. Marciavano al freddo mentre io e il mio cerchio alla testa li guardavamo ammirati dalla finestra.
Sette anni dopo, quel capo della Marina si sarebbe ricordato di me.

Ed eccomi qui, dopo il colloquio col Ministero, incapace di dormire.
C’è qualcosa che punge, che urta i miei anni di servizio civile, che graffia la mia militanza pacifista, i miei viaggi nella Serbia bombardata, le mie donazioni a Emergency, i miei diti medi ai camion mimetici. Qualcosa che mi duole e non mi lascia dormire.
Non so che fare.
La mia mente costruisce alibi, il mio cuore li smonta uno a uno. Uno a uno.

In fin dei conti pur lavorando per loro non dovrei comunque sparare a nessuno. Ma sarei rotella dell’ingranaggio.
Meglio uno come te lì, che un altro. Ma io posso dare di più altrove.
Chi ti ha parato il culo quella volta che eri in mezzo a un attentato? Gli stessi che praticano il terrorismo in Africa e Medio-oriente, ad occhio.

Mi imploro – Pasini – di non banalizzare la complessità, di non appiattire tutto per trovare una facile giustificazione. Lo fanno già in troppi.
Sì ma quanto stai sputando sangue per pagarti l’affitto? Ci sono sere in cui mi sento al centro di un ring con i polsi legati e gli occhi tumefatti, mentre i figli di papà mi girano intorno schiaffeggiandomi il culo.
L’anno scorso è andato in rosso; ho subito l’umiliazione del cercare casa, del non avere abbastanza garanzie per ottenere uno sgabuzzino ammuffito a Parigi; e il brivido costante di non poter mai contare su un welfare che pure difende così bene i dipendenti.
Quanto mi pesa questa fatica? Forse meno di quel che sembra. Forse il ring è solo una pista da ballo con pessima musica e pessimi ballerini che mi pestano i piedi.

Provo vergogna per questi stati d’animo, ne parlo con difficoltà, cerco un modello che non trovo.
E intanto passano i mesi.
Poi un giorno di gennaio si rifanno vivi. Hanno un problema urgente e vorrebbero avviare la nostra collaborazione. Mi chiedono una proposta economica.
Se devo farmi schifo, almeno che possa pulirmi il culo coi dollari: sparo alto. Speriamo non rispondano al fuoco.
E infatti: non lo fanno.
Codardi.
Silenzio.
Mi allontano in punta dei piedi.

Un’amica mi aveva detto che non mi sbronzo con la gente giusta. L’altro giorno mi scrive. Sai, mi dice, fatti una chiacchierata con questa tizia, stanno cercando uno come te e gli ho passato il tuo contatto.
È così che ho iniziato a collaborare con una startup parigina che si occupa di migliorare il rilevamento delle malattie rare in maternità.
Pur con la dignità intatta, ho dovuto ammettere che i miei valori hanno un prezzo, un prezzo che almeno una volta ho quantificato. E quel prezzo è ancora lì, nero su bianco. In PDF.
Passa per queste fragilità la consapevolezza di sé.

Ieri mattina sono andato al Necker, l’ospedale per le malattie infantili rare. Avevo una riunione.
Non ci siamo baciati sulla guancia, né stretti la mano, sai questa cosa del virus. Però dalla vetrata della sala conferenze si vedevano i tetti di Parigi, a sinistra la Tour Eiffel, a destra la cupola dorata di Hôtel des Invalides. Era soleggiato.
I miei colleghi non sembravano farci caso, a tanta bellezza.