La vita mi sorride, e ha lo sguardo ebete di chi si diverte a guardare gli scivoloni sulle bucce di banana.
Non a caso qui attorno è pieno di monumenti ai caduti.

Sto scrivendo da Brest, da una camera d’hotel triste e spoglia. Mi somiglia.
Brest è talmente brutta che non mi sento in colpa a starmene a letto. Il depliant dice che l’attrazione principale è un ponte di cemento armato e addirittura mi consiglia un altro ponte, ancora più brutto, dal quale poterlo ammirare. Mi ricorda quella guida, si chiamava Lonely, senza Planet, e parlava di ponti e di dove mangiare prima di buttarsi.

Conosco la provincia, che è uno stato d’animo prima che un luogo, uno stato sovrano con frontiere ben sorvegliate. Ci sono cresciuto.
Quel poco che offre diventa il tuo riferimento al bello, all’intelligente, all’affermato. Maledizione.

Sono le nove. Di sera, certo. Se guardo il bar giù in strada – chiuso – e il Carrefour – aperto – facciamo serata al banco frigo?
Se guardo i modi impacciati della gente e il loro passo lento, le battute sulle bionde e sui froci, il difendere le tradizioni come se qualcuno gliele stesse toccando.
Se li spio alle finestre di ‘sti palazzi orribili, tv tv tv. Ho anche chiesto, ma al Carrefour non vendevano fionde.

Sono come le mosche io, di posti merdosi ne ho visti e ho imparato che se non ci trovi niente di bello è perché non li stai guardando bene, non li stai capendo.
Un’ape dirà sempre a una mosca che il miele è meglio della merda, per questo ascolto mal volentieri i consigli di viaggio, perché adoro i posti orribili dove i turisti non vanno e piove sempre e i corridoi sanno di cavolo e puoi sentirla ancora tutta quella disperazione del vivere, quella voglia di fuga ma dove vai che attorno hai solo mare e gli unici fari sono quelli di casa e ringrazia Dio che non ci sono solo campanili.
Quel vuoto dentro.
Di cosa parli quando parli della vita, se non di questo?